Presentazione

Raffaele Iorio

Vol. 54 - N. 216 - ottobre-dicembre 2024

Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali Sezione di Pediatria Università degli Studi di Napoli “Federico II”

 

Negli ultimi anni in epatologia pediatrica si sta vivendo una fase di intenso entusiasmo per la disponibilità di una nuova classe di farmaci, gli inibitori del trasportatore ileale degli acidi biliari (IBAT), per il trattamento di alcune colestasi di origine genetica, quali la sindrome di Alagille e le colestasi intraepatiche progressive familiari (PFIC). Entusiasmo che appare, almeno a chi scrive, addirittura superiore a quello che ha accolto i farmaci antivirali orali che hanno consentito di ottenere l’eradicazione completa e duratura dell’infezione da virus dell’epatite C nella quasi totalità dei trattati, con effetti collaterali trascurabili. Eppure, a differenza degli antivirali per l’epatite C, gli IBAT non determinano la guarigione delle epatopatie colestatiche in cui sono utilizzati. Ciò che riescono a ottenere in una buona parte dei trattati è la riduzione dei livelli sierici di acidi biliari e il controllo del prurito. Quest’ultimo risultato è però così rilevante per i suoi risvolti clinici e gestionali che probabilmente rende ragione del suddetto entusiasmo. Il prurito grave, infatti, quale quello che caratterizza alcune forme di colestasi cronica, ha un impatto così severo sulla qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie da costituire una indicazione all’epatotrapianto. Ancora più rilevante è la considerazione che nella suddetta tipologia di pazienti, l’epatotrapianto è effettuato in soggetti con funzione epatica conservata che, in assenza di prurito, non avrebbero mai richiesto il trapianto di fegato. Certamente dunque non si può non prendere atto di questo successo degli IBAT sul prurito, sintomo così invalidante in alcuni pazienti e così intrigante dal punto di vista patogenetico. Al momento, per esempio, non è ancora ben chiaro perché a parità di colestasi, in termini di iperbilirubinemia coniugata e di aumento degli acidi biliari sierici, alcuni pazienti soffrono di prurito severo e altri no. Talvolta il prurito paradossalmente è ancora più grave nei pazienti con assenza di iperbilirubinemia. È inoltre osservazione comune che il prurito tende a essere particolarmente intenso in alcune forme di colestasi, quali la sindrome di Alagille e le PFIC, mentre può completamente mancare in altri casi. Parimenti intrigante è l’osservazione che la severità del prurito tende talvolta a ridursi con l’aumentare dell’età sia nella sindrome di Alagille sia nelle PFIC. Tutto ciò rappresenta evidentemente una problematica degna di approfondimento sia sotto il profilo clinico che fisiopatologico. In questo numero di Prospettive in Pediatria, Veraldi, Delle Cave e Pietrobattista hanno fatto il punto sul prurito colestatico, sulla sua fisiopatologia e sulle potenziali terapie. I riferimenti ai meccanismi neurofisiologici e ai mediatori implicati nel determinismo di questo spiacevole sintomo sono di grande interesse per il pediatra, soprattutto per gli aspetti differenziali con il prurito istaminergico che è quello di più comune osservazione nella pratica clinica. È auspicabile che questo articolo possa allertare pediatri, allergologi e dermatologi su un accurato ed estensivo approccio al bambino con prurito evitando che si verifichino ritardi diagnostici simili a quelli patiti dal protagonista del film “Caro diario” di Nanni Moretti che racconta il lungo e infruttuoso peregrinaggio tra gli specialisti di un paziente con prurito da linfoma. Nell’articolo di Di Dato e Di Giorgio si focalizza invece l’attenzione sugli studi che hanno sancito l’efficacia degli IBAT nelle epatopatie colestatiche pediatriche. Come si diceva prima, colpisce che il risultato principale sia quello del controllo del prurito e della riduzione dei livelli sierici degli acidi biliari, mentre l’impatto sui livelli di bilirubinemia ed enzimi epatici appare meno significativo. Cionondimeno, si sta affermando forte l’idea che gli IBAT abbiano un impatto favorevole sul decorso a medio e lungo termine delle epatopatie colestatiche, in termini di sopravvivenza libera da eventi quali scompenso epatico, diversione biliare chirurgica, trapianto epatico o morte, e ciò in base a una valutazione comparativa con coorti storiche e senza una analisi multivariata mirata a valutare l’eventuale interferenza degli altri farmaci utilizzati in contemporanea dai pazienti per il controllo del prurito.
In epatologia negli ultimi anni si è inoltre verificata una vera e propria rivoluzione nella definizione diagnostica delle epatopatie con l’avvento e la diffusione della metodica della Next Generation Sequencing (NGS), che permette l’analisi simultanea di numerosi geni e i cui risultati sono diventati disponibili in tempi sempre più brevi. Ciò ha consentito l’identificazione di numerose forme di malattia non ben caratterizzate fino a pochi anni fa. Basti pensare al progressivo allungamento delle forme di PFIC che dalle classiche tre iniziali sono ormai diventate una lista lunga almeno una dozzina di tipi. A differenza del passato, grazie al sequenziamento dell’intero genoma codificante e non codificante, molte epatopatie colestatiche possono oggi essere classificate su criteri molecolari piuttosto che clinici e/o istologici. Si apre quindi una nuova era che sempre di più sta investendo anche il mondo degli adulti epatopatici in cui si riconoscono forme genetiche che prima o passavano misconosciute o erano inserite in contenitori più ampi ed eterogenei come il danno epatico indotto da farmaci (drug induced liver injury) o la colestasi gravidica. L’abbassamento dei costi delle indagini molecolari e la possibilità di avere i risultati nel giro di poche settimane consentiranno sempre di più un migliore inquadramento dei pazienti epatopatici pediatrici e adulti. La definizione molecolare delle varie forme di colestasi avrà inoltre un risvolto positivo in termini di conoscenza dei meccanismi patogenetici ma anche delle possibilità terapeutiche. Tutto ciò emerge dall’articolo di Pepe, Lausi e Mandato che fanno il punto sulle novità in tema di diagnosi e terapia delle epatopatie colestatiche. In tale articolo è richiamata l’attenzione anche sulla gestione nutrizionale dei bambini colestatici, una delle sfide più impegnative da affrontare per gli operatori sanitari che gestiscono tali pazienti. Si tratta di soggetti che non solo hanno una spiccata inappetenza in ragione della loro epatopatia cronica, ma anche un alterato assorbimento intestinale dei grassi e delle vitamine liposolubili, legato alla colestasi, e un compromesso metabolismo dei nutrienti correlato alla cirrosi. A tutto ciò si aggiunge la difficolta in questi pazienti di una accurata valutazione nutrizionale per la presenza di visceromegalia addominale e ascite che annullano il significato della rilevazione del peso corporeo, così importante in età pediatrica come indicatore di crescita corporea. È ormai il tempo che una appropriata gestione nutrizionale venga effettuata attraverso il coinvolgimento e l’integrazione di molteplici professionalità per consentire al paziente una evoluzione favorevole. Sulla base di tutto ciò è presumibile che nel prossimo futuro si potrà ridurre il ricorso all’epatotrapianto in una percentuale progressivamente crescente dei casi e ciò grazie a una migliore conoscenza dei meccanismi molecolari sottostanti e alla disponibilità di nuove terapie sempre più individualizzate e mirate ai meccanismi patogenetici.